Il terrorismo jihadista ha dominato il panorama relativo alle sfide di sicurezza internazionale per le prime due decadi del Ventunesimo secolo – un arco temporale che parte dagli orrendi attentati dell’11 settembre 2001 e arriva fino ai tempi recenti. Nel contesto internazionale attuale, la minaccia jihadista appare in qualche modo meno pressante. Questo ridimensionamento è dovuto a una confluenza di fattori. In primo luogo, le lunghe campagne militari in Afghanistan e in Iraq, lanciate dall’amministrazione statunitense guidata da George W. Bush a seguito della tragedia dell’11 settembre, si sono rivelate molto più difficili e hanno prodotto risultati ben al di sotto delle previsioni del presidente e dei suoi collaboratori. Tutto ciò ha fortemente screditato l’ambiziosa ma controversa visione che caratterizzava la “Guerra al terrore” di Bush. In secondo luogo, lo smantellamento dello “Stato islamico”, sorto in parte dei territori della Siria e dell’Iraq tra il 2014 e il 2016 (e anche noto come Islamic State in Iraq and Syria, o Isis, o con l’acronimo arabo Daesh), ha ulteriormente limitato la portata della minaccia jihadista, che, contestualmente all’ascesa di Daesh nel Medio Oriente, si era manifestata anche in una serie di attentati terroristici in Europa e aveva colpito in maniera particolarmente dura la Francia. Infine, si può osservare che la guerra di aggressione lanciata dalla Russia di Vladimir Putin ai danni dell’Ucraina e le crescenti tensioni tra la Cina e i suoi vicini nell’area dell’Indo-pacifico hanno spostato l’attenzione dei media, degli opinionisti, e dei decisori politici verso le questioni legate agli equilibri tra grandi potenze.
Sebbene la portata della minaccia jihadista possa apparire ridimensionata, è importante notare che in realtà il jihadismo rimane un fenomeno decisamente importante e da non sottovalutare, una sfida di sicurezza che sembra destinata a interessare in particolare lo scacchiere europeo e mediterraneo. In Medio Oriente, la sconfitta dello Stato islamico come minaccia territoriale ha comunque lasciato spazio sufficiente a Daesh e ad altri gruppi jihadisti per continuare a operare sotto forma di entità non-statuali. Va notato inoltre che, nonostante i significativi interventi militari attuati nell’ultimo decennio, la minaccia jihadista si è notevolmente affermata anche in Africa, soprattutto nelle regioni del Sahel e dell’Africa Occidentale – un fenomeno che influenza anche le dinamiche migratorie e la stabilità dei paesi della sponda sud del Mediterraneo. Infine, il terrorismo di matrice jihadista rimane un problema serio anche nel panorama della sicurezza europea.
La valutazione dello stato attuale e delle dinamiche di evoluzione della minaccia jihadista è l’oggetto di alcuni volumi recentemente pubblicati in Francia. Il primo, L’État islamique est-il défait? di Myriam Benraad, pubblicato quest’anno dalla CNRS Éditions, si propone di esaminare l’entità della minaccia rappresentata attualmente dallo Stato islamico, con particolare attenzione nei confronti del contesto mediorientale. Il secondo, L’Afrique, le prochain califat? di Luis Martinez, pubblicato anch’esso nel 2023 ma dalla casa editrice Tallandier, mette a fuoco l’ascesa del fenomeno jihadista in Africa. Il terzo, un breve saggio di Hugo Micheron intitolato Jihadisme européen : quels enjeux pour l’avenir? e pubblicato nel 2022 dalla Gallimard, si concentra infine sull’analisi del fenomeno jihadista in Europa. Benraad è una politologa e docente specialista del mondo arabo, Martinez è direttore di ricerca presso il Centre de recherches internationales dell’Università Sciences Po e Micheron è ricercatore e docente presso l’università di Princeton.
Il fenomeno noto come “Stato islamico” sorto in Siria e in Iraq tra il 2014 e il 2016, afferma Myriam Benraad, è stato il prodotto di una peculiare convergenza di eventi, tra cui spiccano gli anni di instabilità e i conflitti interni che hanno dilaniato i due paesi a seguito prima del rovesciamento del regime di Saddam Hussein e poi della guerra civile siriana. Questi sviluppi – che hanno in particolare creato un forte senso di alienazione e oppressione nelle comunità sunnite dei due paesi, masse di individui senza mezzi di sostentamento ma provvisti di addestramento militare e un flusso di foreign fighters nella regione (tra cui anche più di 6,000 occidentali, soprattutto europei) – hanno consentito la trasformazione di Daesh da gruppo jihadista a entità dotata di alcuni attributi assimilabili effettivamente a uno Stato. Tuttavia, come nota Benraad, questo percorso non ha mai raggiunto un compimento, e alcune caratteristiche che avevano permesso l’ascesa di Daesh si sono poi rivelate delle debolezze che hanno favorito, tra il 2017 e il 2019, lo smantellamento del proto-Stato emerso pochi anni prima. Tra questi fattori si può citare il carattere radicale, dogmatico e violento dell’Isis, che identifica come nemici non solo l’Occidente, ma anche altre potenze coinvolte negli equilibri politici del Medio Oriente come la Russia e la Cina, le minoranze religiose della regione, i musulmani sciiti e perfino i musulmani sunniti che non si riconoscono nel progetto radicale portato avanti dal gruppo. Questo aspetto ha dato allo “Stato islamico” un carattere brutale e intransigente che non ha permesso di affermare una cultura politica accettata tra le popolazioni finite sotto il controllo dell’Isis, e ha favorito il sorgere di una variegata coalizione internazionale che tra il 2017 e il 2019 ha condotto allo smantellamento di Daesh come entità territoriale.
Secondo Benraad, lo Stato islamico è stato dunque sconfitto in maniera decisiva sotto il profilo territoriale e dal punto di vista delle capacità materiali. Tuttavia, l’ideologia su cui si è basata l’ascesa e l’esperienza dello Stato islamico in Iraq e in Siria, pur essendo stata fortemente screditata alla prova dei fatti, non è stata del tutto estirpata. La propaganda di Daesh continua ad avere influenza, e il progetto jihadista non è completamente scomparso, ma rappresenta al contrario una minaccia che, seppur ridimensionata non può essere considerata come neutrallizzata.
Anche se si può sostenere che il jihadismo sia ancorato al Medio Oriente, i saggi di Luis Martinez e Hugo Micheron dimostrano in maniera convincente quanto il fenomeno jihadista sia stato capace di varcare i confini della regione per impiantarsi in maniera significativa anche in altre aree, in particolare in Africa e in Europa. Secondo Martinez, nel caso africano, e in particolare per quanto riguarda il Sahel e l’Africa Occidentale, il crollo del regime di Muammar Gheddafi in Libia nel 2011 ha creato un’opportunità decisiva per la diffusione dei gruppi jihadisti, che hanno beneficiato dell’instabilità politica e della frammentazione dello Stato libico, di una maggiore libertà di movimento, e dell’accesso a depositi di armi e munizioni. Tuttavia, secondo l’autore, questa finestra di opportunità si è sovrapposta a una serie di fattori strutturali, in particolare l’inadeguatezza e l’impreparazione delle forze militari dei paesi del Sahel e dell’Africa Occidentale, la povertà e il senso di oppressione e ingiustizia ampiamente diffusi tra le popolazioni locali. Le dinamiche di crescita demografica e urbanizzazione stanno inoltre profondamente trasformando la regione, che è tra l’altro fortemente esposta al cambiamento climatico e che, pur essendo ricca in termini di risorse minerarie, soffre di una notevole scarsità di risorse vitali come l’acqua e i terreni agricoli.
Gli interventi militari attuati nella regione dalla Francia e da altri paesi europei a partire dal 2013, nota Martinez, non hanno ottenuto il risultato di neutralizzare o contenere la diffusione del jihadismo. Al contrario, il decennio di interventismo militare nella regione è stato accompagnato da un aumento dell’intensità e dell’estensione geografica dell’attività jihadista. Anche gli sforzi dell’Unione europea sono stati secondo l’autore al di sotto delle aspettative, penalizzati soprattutto dal carattere burocratico e autoreferenziale delle iniziative dell’Ue.
Gli scarsi risultati e la natura preminentemente militare dell’intervento, osserva Martinez, hanno inoltre minato l’immagine della Francia, favorendo non solo la diffusione del jihadismo, ma anche una maggiore presenza di attori esterni che non vengono percepiti come “colonialisti” nel contesto africano. Tra questi spiccano la Russia, che come è ormai noto ha incrementato significativamente la sua presenza in Africa attraverso le attività della società di mercenari Wagner, e la Cina, che ha effettuato forti investimenti nella regione e che viene identificata in maniera ostile dai gruppi jihadisti, ma non viene percepita in maniera particolarmente negativa dalle popolazioni locali. Un’altra categoria di attori sempre più attivi in Africa è costituita dall’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo, che hanno finanziato la formazione di predicatori religiosi e la costruzione di moschee nella regione. La sovrapposizione di queste dinamiche ha prodotto un circolo vizioso di instabilità, conflitti ed estremismo – una tendenza fra l’altro dimostrata anche dal recente colpo di Stato in Niger. La soluzione per uscire da questa sorta di trappola, sostiene Martinez, deve passare per un nuovo approccio francese ed europeo maggiormente concentrato sul dialogo con le realtà locali e sull’investimento nelle istituzioni e nella governance dei paesi africani.
Come già osservato, il jihadismo ha interessato in maniera diretta e dolorosa anche l’Europa, e il breve saggio di Hugo Micheron offre interessanti dati e spunti di riflessione per comprendere la natura e le dinamiche di questo fenomeno. Secondo Micheron, il fenomeno jihadista si è manifestato in Europa seguendo dinamiche di “alta” e “bassa marea”. Le fasi di “alta marea” sono state caratterizzate da ondate di attività offensiva, come nel caso degli attacchi terroristici che hanno colpito Madrid e Londra tra il 2004 e il 2005 o dell’ondata di terrorismo che ha colpito in particolare la Francia tra il 2015 e il 2017. Le fasi di “bassa marea” sono state invece periodi di ritirata, in cui i gruppi jihadisti hanno cercato di limitare l’efficacia delle politiche antiterroristiche tornando nell’ombra e cercando di ripensare le strategie per portare avanti il loro progetto.
Secondo Micheron, il sentimento di alienazione e il degrado economico e sociale diffusi in molte delle comunità musulmane in Europa costituiscono fattori importanti ma non decisivi per l’emergere di gruppi jihadisti. Un aspetto decisivo è rappresentato secondo l’autore dal fatto di essere in contatto o meno con individui già radicalizzati e appartenenti a organizzazioni jihadiste. Queste osservazioni possono far riflettere sulle ragioni per cui in effetti solo alcune comunità sviluppano cellule terroristiche, sul rischio legato a foreign fighters e altri individui di ritorno da teatri come la Siria e l’Iraq, e sul motivo per cui le carceri rappresentano un luogo di reclutamento e formazione di rilievo per i gruppi jihadisti operanti in Europa (e non solo) – un aspetto che tra l’altro può anche far capire quanto sia importante far sì che le carceri non siano solo luoghi di detenzione ma anche istituzioni in grado di inserire i detenuti in un percorso di recupero e riabilitazione.
La lettura di questi tre saggi rende in maniera efficace l’idea di quanto il jihadismo sia una minaccia capace di rinnovarsi e adattarsi a diverse realtà geografiche, politiche e sociali. Inoltre, sebbene i diversi contesti – mediorientale, africano ed europeo – presentino significative differenze, è possibile individuare delle analogie. In particolare, anche se la povertà e il senso di alienazione non sembrano di per sé determinare il sorgere di gruppi jihadisti, appare chiaro che queste situazioni creano un terreno fertile che permette alle organizzazioni jihadiste sia di organizzare operazioni offensive sia di trovare riparo nei momenti in cui la lotta antiterrorista diventa più efficace. Inoltre, la lettura di questi saggi rafforza in qualche modo l’idea che la componente militare, per quanto importante e in molti casi indispensabile nelle politiche di controterrorismo, non costituisca di per sé una garanzia di successo. Si può anzi sostenere che una strategia troppo concentrata sulla dimensione militare, ma non adeguatamente consapevole delle realtà locali e sprovvista di un’efficace componente politica e di sviluppo, può persino rivelarsi controproducente. Sembra che questo sia uno dei problemi dell’approccio europeo nei confronti del Sahel e dell’Africa Occidentale, ma si può osservare come questo problema abbia anche severamente minato le possibilità di successo dell’intervento in Afghanistan tra il 2001 e il 2021.
In conclusione, anche se al momento la minaccia jihadista sembra forse contenuta e oscurata da nuove priorità, la lettura dei lavori di Benraad, Martinez e Micheron permette di valutare con maggiore lucidità una sfida di sicurezza che rimane significativa e che non va assolutamente sottovalutata.
Diego Pagliarulo